
Eccentrico, sregolato, folle. Istrionico, funambolico, imprevedibile. Quando si parla di Diego Armando Maradona, oltre a citarne l'incredibile talento, si utilizzano una miriade di aggettivi. Si potrebbe proseguire all'infinito: carismatico, esagerato, incontenibile e così via. Etichette giuste, valide, qualcuna un po' scomoda, qualcun'altra meno, ma insomma tutte riconducibili, a mio avviso, al più grande giocatore di football di tutti i tempi: señoras y señores, el Diez.
Maradona è disordine e geometria. Caos di intenti e pace nelle movenze. Lui che ha stravolto il concetto del numero 10, che nella maglia appiccicata alla sua schiena da semplice riconoscimento del fantasista è divenuto icona del genio. Lui che rappresenta quella parabola che tende verso il successo, dalla povertà in Argentina all'olimpo dei grandi. Lui che è stato un ragazzino che inseguiva un sogno: "Tengo dos sueños: jugar una copa del mundo y ganarla" (Ho due sogni: il primo è giocare un Mondiale, il secondo è vincerlo). Maradona, catalizzatore delle folle e sintetico oratore, come quella volta al San Paolo, nel giorno della sua presentazione come nuovo giocatore del Napoli di fronte a 70000 spettatori: "Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires". Ci sono tante cose da dire, tante altre da sottolineare a suo riguardo: dalle questioni legate alla droga, alle dichiarazioni forti fino a quando finisce spesso per toccare il fondo e poi risale e poi riscende. C'è chi lo considera un fenomeno, ma non il numero uno. C'è chi non riesce ad innalzarlo al gradino più alto perché quella parentesi buia compromette il giudizio totalitario. C'è chi valuta una carriera intera, fra alti e bassi, mani che sfiorano il paradiso e dita dei piedi che bruciano all'inferno e da tutto ciò si fa travolgere, analizzando un giocatore con fare da matematico.
Io, personalmente, credo che un calciatore debba essere giudicato in maniera proporzionale a ciò che genera, a quel che grazie a lui arriva, alle emozioni che suscita. E sarà quel pallone cucito al piede e quei dribbling impossibili, quel sinistro fatato e quelle punizioni sopraffine, sarà quell'estro esagerato e lampante, quella luce a ogni tocco di sfera, quella capacità di farsi carico di una squadra di club e di trascinare una nazione intera al trionfo, sarà per queste cose e molto altro che per me resta il più grande di sempre, lui, il Pibe de Oro, il calcio nella sua più stravagante e fulvida bellezza.
60 anni di inferi e luminosità, tanti auguri Diego. E mi raccomando: cerca di trattarti bene, palleggia la vita sempre e poi spediscila nel sette.
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