Le lacrime di Cristiano Ronaldo per un rosso assurdo, quel suo grido disperato "Non ho fatto niente", restituisce a tutti l'essenza primordiale del calcio, la particella elementare e indivisibile: un gioco che si fa da bambini, di ragazzetti e che, a colpi di emozione, incerotta i buchi nell'ozono. So bene tutto quello che c'è attorno al calcio multi miliardario, multi mediale, multi mercato, non nascondo di certo il mostro dei procuratori, degli ingaggi esorbitanti, dei prestiti con obbligo e/o diritto di riscatto, delle televisioni, delle scommesse, dei baci a tre maglie diverse all'anno, tutto vero.
Per cercare però di comprendere come mai Cristiano Ronaldo abbia vinto così tanto, personalmente e di squadra, è necessario partire da quelle lacrime, da quel grido, dall'ingiustizia subita. L'eroe esposto al pubblico ludibrio di milioni di persone, di like, e che invece risorge subito reagendo come ogni fanciullo che ama giocare al calcio, dal campetto di periferia senza erba a fin dove riesce ad arrivare.
CR7 campione per quelle lacrime, soprattutto per quelle, la sua forza nasce senz'alcun dubbio da quella reazione. CR7, in quel momento, era tutti i bambini che inseguono la palla che rotola, la "sfera-pianeta" dentro l'universo d'erba del campo di calcio.
E' solo calcio, certo. I ponti cadono, la quota cento, i richiedenti asilo. Le prime pagine dei giornali raccontano una realtà triste fatta di minotauri e di arianne e di tesei, e quindi il calcio, la Champions League, tutto il movimento, restano nel recinto del superfluo, sono solo un pezzo di quell'arte che permette di sopravvivere alle cose importanti, niente di più.

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